Il costo della “secessione dei ricchi” L’Isola sempre più isolata dal Nord

Competenze e tasse: il regionalismo differenziato, una partita da 21,5 miliardi

dal Quotidiano “la Sicilia” di MERCOLEDÌ 13 FEBBRAIO 2019

MARIO BARRESI
CATANIA. La definizione più efficace è anche il titolo di un libro: Verso la secessione dei ricchi?. Gianfranco Viesti, con prudenza da economista, lascia il punto interrogativo in sospeso. Eppure, alla vigilia dello show down sul cosiddetto regionalismo differenziato (nel Consiglio dei ministri di giovedì 15 doveva esserci un punto sull’accordo con le Regioni sull’autonomia, ma sembra essere slittato almeno alla prossima settimana), cresce la preoccupazione – con venature di terrore – sulle conseguenze dello strappo di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna dal resto del Paese.
La questione, nei corretti termini del costituzionalista, la spiega Agatino Cariola nell’intervento accanto. Qui ci limitiamo a riassumerlo: per effetto di due referendum consultivi e una risoluzione consiliare, le tre Regioni (già seguite nell’iter da tante altre) chiedono l’applicazione concreta dell’autonomia differenziata. Il che significa, innanzitutto, competenze. I governatori chiedono a Roma di potergestire grandi temi come l’istruzione, l’ambiente o il overno del territorio.
Negli elenchi di Lombardia e Veneto ci sono ben 23 competenze oggi in “con – dominio” con lo Stato, quelle rivendicate dall’Emilia Romagna sono finora 15; ma i dossier al centro delle richieste, secondo il Sole-24Ore, riguardano più di 200 funzioni amministrative. Dalla promozione dei beni culturali al «rispetto delle fasce cimiteriali». La vera partita, ovviamente, si gioca sui soldi. Il passaggio di competenze (e di risorse) ha un valore stimato il 21,5 miliardi “trasferibili”. E poi c’è il «residuo fiscale»: la differenza fra quanto si paga di tasse in un territorio e quanto si riceve dallo Stato. Il principio è semplice: tanto più una Regione è ricca, tante più risorse avrà per i suoi servizi. E non finisce qui: nelle bozze dell’accordo c’è la clausola per cui se Veneto e Lombardia avranno ottenuto più soldi del reale costo dei servizi, quei surplus resterà comunque a loro e non più allo Stato. Fin qui il valore del “bottino” che il Nord vuole riportarsi a casa, con la Le Lega che spinge fino a minacciare la crisi in caso di ulteriori ritardi e il M5S in un imbarazzato silenzio. Ma c’è chi, al di fuori della politica, storce il naso. A partire dalla Svimez, che denuncia «un percorso verso un sistema confederale, nel quale alcune Regioni si fanno Stato, cristallizzando diritti di cittadinanza diversi in aree del Paese differenti ». Esprimendo «molte perplessità sulle modalità di finanziamento dell’autonomia differenziata: la pretesa di trattenere il gettito fiscale generato sui territori è infondata, inconsistente e pericolosa».
Quanto potrebbe costare alla Sicilia la “secessione dei ricchi”? Una cifra ufficiosa che circola è 7 miliardi l’anno. Ma nessuno, in attesa di sapere l’effettivo contenuto dell’accordo dello Stato con le Regioni del Nord, si sbilancia. Soltanto Roberto Di Mauro, fra i più lungimiranti eredi dell’autono – mismo lombardiano, si limita ad additare le spese sulla sanità: «Lo Stato paga circa il 50 per cento di 9,5 miliardi», dice il vicepresidente dell’Ars, mettendo in guardia dal «patto scellerato dei 5stelle, che barattano il reddito di cittadinanza con un regionalismo differenziato che sarà la tomba per la Sicilia ». Una misura «ben diversa dal federalismo fiscale, con una chiara perequazione per il Sud, che l’Mpa firmò con un’altra Lega, quella di Bossi e Calderoli».
Ma bisogna anche sfatare alcuni tabù economico-culturali. Il primo è relativo al Mezzogiorno parassita al traino della Padania produttiva. Svimez parla invece di «interdipendenza Nord-Sud», dimostrata da «una serie di fattori che non sono contestabili»: accanto ai trasferimenti netti di risorse pubbliche da Nord a Sud, vi sono corposi trasferimenti di risorse a vantaggio del Nord. Il Mezzogiorno è un primario mercato di sbocco dell’industria settentrionale; il risparmio meridionale è impiegato per finanziare investimenti meno rischiosi e più redditizi nel Centro-Nord; l’emigrazione di giovani meridionali in formazione o con elevate competenze già maturate alimenta l’accumulazione di capitale umano nelle Regioni settentrionali. In soldoni: 20 dei 50 miliardi circa di residuo fiscale trasferito alle Regioni meridionali dal bilancio pubblico ritornano al Centro-Nord sotto forma di domanda di beni e servizi; la domanda interna per consumi e investimenti del Mezzogiorno attiva circa il 14% del Pil del Centro-Nord; il valore dei consumi pubblici e privati attivati dall’emigrazione studentesca nelle regioni del Centro-Nord è di circa 3 miliardi l’anno, con perdita di pari importo per le regioni meridionali. E poi ci sono i dati macroeconomici. Il Pil, certo: al Sud s’è ridotto del 9% rispetto al periodo pre-crisi, una contrazione due volte superiore rispetto a
quella del Settentrione. Ma il dato più preoccupante riguarda la forbice degli investimenti pubblici, «un vero e proprio crollo» fotografato da Svimez: nel Mezzogiorno s’è passati da una quota di spesa in conto capitale pari all’1,6% (nel 2002) a un modestissimo 0,7%. Disattendendo, nei fatti, la cosiddetta “clausola del 34%”, ovvero la soglia degli investimenti fissata in base alla percentuale della popolazione. Il che, di per se stesso, è già già una zavorra per chi è rimasto indietro. Figuriamoci se poi non viene nemmeno rispettata: il Fondo Sviluppo e Coesione è praticamente fermo, mentre i “Patti per il Sud” annaspano. Il conto finale: nell’ultimo triennio gli investimenti statali al Sud sono in media del 28,4%. Infine, il residuo fiscale. Svimez lo calcola al ribasso, rispetto alle stime delle Regioni “secessioniste”: 13 miliardi per la Lombardia (e non 40), 2 miliardi a testa per Veneto ed Emilia-
Romagna (anziché 12 e 11). E in Sicilia? S’è «ridotto drasticamente», secondo un dossier dell’assessorato regionale all’Economia: da 2,419 miliardi del 2000/02 a 1,941 del 2014/16, con una decrescita stimata nel 30% ai giorni nostrri. Perché? Per la sostanziale mancata applicazione dell’Auto – nomia, soprattutto sul gettito fiscale maturato in Sicilia da aziende con sede al Nord e sul mancato incasso delle accise sui prodotti petroliferi (8 miliardi l’anno di gettito per lo Stato). Per questo – in attesa, magari, di un sacrosanto “tagliando” allo Statuto – è decisiva la partita che il governo regionale, con un apprezzabile lavoro diplomatico del vicepresidente Gaetano Armao, sta giocando a Roma sull’autonomia finanziaria che potrebbe concretizzarsi entro settembre. Twitter: @MarioBarresi